A fronte di una campagna stampa che, negli ultimi mesi, ha considerato i disturbi di apprendimento tra gli studenti italiani un problema di medicalizzazione della scuola e un prodotto di false diagnosi, numerose sono state le prese di posizione per scardinare quello che è stato, invece, definito, un problema di pericolosa informazione.
Una delle ultime, in ordine di tempo, è quella del prof. Giacomo Stella, maggior esperto in Italia di dislessia e DSA, che in un suo intervento nel blog “Blog Dislessia” di Giunti Scuola smonta la tesi sulle troppe o false diagnosi di dislessia e lancia la sua “proposta shock”.
Di seguito, l’intervento del professore:
«L’epidemia dei BES e dei DSA
In questi giorni si è nuovamente accesa la discussione sulle diagnosi e sui certificati. Ciclicamente c’è qualcuno che parla di eccesso di medicalizzazione, numero smisurato di diagnosi che invadono la scuola, costi sociali che questo fenomeno produce. È davvero così?
Eccesso di medicalizzazione, di diagnosi a scuola, di costi sociali: queste affermazioni non sono quasi mai corredate da dati certi e vengono diffuse senza alcun controllo della loro veridicità. Se si guardano i dati del MIUR, secondo l’ultima rilevazione relativa al 2016, il ministero ha poco meno di duecentomila diagnosi che rappresentano il 2% della popolazione scolastica.
Poiché il dato più prudente stima una prevalenza del 3,5%, mancherebbero ancora circa centomila diagnosi all’appello. Ci sarebbero, cioè, circa centomila studenti che sono nella scuola con le loro difficoltà senza che queste vengano considerate nel giusto modo. La distribuzione delle certificazioni sul territorio nazionale è molto diversificata. Ci sono regioni del sud dove la prevalenza di bambini o studenti con DSA non raggiunge nemmeno l’1%, mentre al nord qualche regione ha superato il 3%.
Al di là dei numeri
In ogni caso, al di là dei numeri, non si può nascondere che il fenomeno va assumendo una rilevanza sempre più vasta, ma occorre osservare che spesso la spinta alla valutazione non viene dalla famiglia, ma dalla scuola. Molte volte gli insegnanti, appena si accorgono di qualche difficoltà di un alunno, chiedono alla famiglia di attivarsi per una valutazione. I servizi pubblici, di fronte a questa ondata di richieste, si trovano sempre più in difficoltà e aumentano i tempi di attesa, così la famiglia si rivolge ai servizi privati.
Una didattica per “bravi”?
Credo che invece di mettere l’attenzione sulla medicalizzazione dei DSA, i pedagogisti dovrebbero riflettere sull’inadeguatezza della didattica che sembra sempre più tarata sui “bravi”, su coloro che riescono, e che spesso va in crisi appena qualche alunno non impara le tabelline o non è in grado di scrivere in corsivo.
C’è bisogno, per concedere l’uso della tavola pitagorica, di avere l’autorizzazione di uno specialista, quando l’insegnante stesso potrebbe essere in grado di capire da solo se l’allenamento condotto senza ottenere i risultati sperati richiede una facilitazione o un supporto. Insomma, sembra che la scuola non sia in grado di capire e di aiutare i suoi alunni nemmeno durante gli anni della primaria, sembra smarrire la sua funzione pedagogica e formativa e sollecitare solo quella selettiva e certificativa.
Perché dovrebbe essere un problema lasciare usare agli alunni la tavola pitagorica o le formule di geometria? Io sono cresciuto e ho imparato in una scuola che questi strumenti li concedeva a tutti. Abbiamo forse paura che non eserciti a sufficienza la sua mente? Ma siamo sicuri che l’abilità di calcolo sia l’unico modo di allenare la mente (e soprattutto quello più efficace?).
La capacità di lavorare in team
I giornali in questi giorni riportano anche che in Italia siamo in fondo alla classifica nella capacità di lavorare in team per risolvere un problema. Ma non dobbiamo scandalizzarci, perché la scuola italiana è sempre stata centrata sulla prestazione individuale. È vietato suggerire, così come è vietato usare gli strumenti di supporto. Gli studenti devono fare tutto da soli e con la loro mente e senza supporti esterni: il cooperative learning è spesso una sorta di esperienza spot che gli alunni fanno come l’ora di ginnastica o di informatica.
Purtroppo in Italia manca un terreno di confronto sui temi della didattica e nemmeno la legge 170 è riuscita a creare questo spazio di discussione. La polemica sull’aumento delle certificazioni ne è la riprova. Questo aumento documenta la rigidità del sistema e l’impoverimento del ruolo del docente che non riesce a cimentarsi con coloro che avrebbero realmente bisogno di lui perché non “imparano da soli”.
Una proposta
Ho una proposta shock per la scuola primaria: abolire le certificazioni e liberalizzare l’uso di tutti gli strumenti. Far xerigrafare su ogni banco linea dei numeri, tavola pitagorica e figure geometriche con le formule. Come reagirebbero i docenti a questa proposta che cancella i vantaggi della prestazione a memoria e mette tutti in grado di fare esperienza, ciascuno scegliendo i propri mezzi e le proprie strade?»
L’intervento riportato sopra, però, non intende demonizzare le diagnosi. Anzi, queste risultano fondamentali, ed è proprio per questo che è necessaria un’attenzione particolare alla loro stesura. Il fatto che la comunità scientifica agisca di modo da portare avanti studi e ricerche per affinare criteri diagnostici e intervenire precocemente su molte difficoltà va interpretato come un approccio serio e meticoloso.
Come professionisti, però, dobbiamo prestare la dovuta attenzione al significato che attribuiamo alla diagnosi, la quale da sola non basta a esaurire la descrizione del bambino. È piuttosto il punto di partenza, una sorta di fotografia della situazione dalla quale, poi, prendere le misure per comprendere come e dove potenziare, riabilitare, educare o ri-educare, integrando in tal senso la scientificità dell’approccio psicologico con il contesto e le relazioni interpersonali.